March 19, 2024

L’ANTICA CERAMICA

La produzione di ceramica di Campione d’Italia, iniziata nel 1700, diede vita dal 1800 alla rinomata produzione “Vecchia Ghirla”.

A Ghirla (Valganna Varese) nel 1825, nacque una vera fabbrica, che produceva una “maiolica nera”, o “terra naturale” chiamata “radica”.

Ma fu la fabbrica di Campione a cedere a quelle di Ghirla alcune ricette per produrre la “terraglia dolce” (chiamata così per i componenti e per le basse calorie di cottura: 970 / 980°C contro i 1200°C della “terraglia forte”). Incominciò così la creazione dei famosi pezzi, i cui ingredienti, quarzo, calcare e argilla, venivano ricavati dai torrentelli e dalle vene naturali del terreno collinoso del luogo. Quando Campione importò dalla Germania l’argilla “a cottura bianca”, anche Ghirla utilizzò tale materiale e si ebbero allora pezzi privi di macchie gialle, dovute all’ossido di ferro esistente nelle materie prime locali. L’antica produzione delle radiche smaltate a base di piombo di stagno riguardava solo vasellame povero, per la conservazione di alimenti; in seguito, con la proibizione dei prodotti usati per la colorazione (manganese), dichiarati nocivi alla salute, la produzione divenne prevalentemente artistica.

I manufatti, servendosi degli stampi del 1700, ne riproducevano le vecchie forme, decorate però secondo il gusto dell’epoca, con l’inserimento di motivi ispirati alla tipologia della maiolica faentina del 1400. Antonio Verda, originario di Campione, acquistò la fabbrica di Ghirla nel 1868 e la condusse fino al 1892. Fu continuata, in quel periodo, la produzione di terraglia con lavorazione a mano, su torni di legno e cottura in forni quadrati chiamati “muffole a fiamma dritta”, funzionanti a legno e carbone.

Nel 1892 il Verda cedette l’opificio a Carlo Ghisolfi, nativo di Varese, che introdusse la lavorazione a macchina con modelli di gesso, cottura in forno rotondo “a fiamma rovescia”, funzionante con carbone a lunga fiamma e a legna (sistema inglese).

A differenza dei precedenti forni, i nuovi forni avevano pareti dallo spessore di circa 80 centimetri, per consentire l’isolamento della bassa temperatura esterna, un diametro di 5 m e un’altezza di 5, 5 m. Funzionavano alternativamente. I prodotti venivano siglati a mano e presentavano il cosiddetto “bordo a foglia” che fu poi uno dei motivi conduttori della produzione.

Dal 1910 i pezzi venivano esclusivamente siglati a mano, ma venivano stampigliati a l’uso inglese con un marchio riportante in un ovale la scritta “GHIRLA”.

Spesso, unitamente allo stampiglio, compariva la sigla o la firma del decoratore; felici esiti decorativi erano poi ottenuti dall’accostamento di magnese, bruno, verde e giallo ossido. Al padre, nel 1935, succedette l’omonimo figlio Carlo, ultimo erede della bella tradizione artistica, educato alla tecnica della ceramica fin dalla sua giovinezza, durate la quale era stato anche in Inghilterra. Questi diede un notevole impulso alla fabbrica, soprattutto a livello artistico.

Durante la sua conduzione, infatti, gli studi e le ricerche della fabbrica portarono alla scoperta del famoso “bleu di Ghirla” che diveniva tale al contatto, con colori comunemente usati, di un certo ossido di cobalto importato d’Inghilterra: a livello decorativo questa tinta diede l’impronta caratteristica a tutta la produzione classica.

Si era intanto sentito il bisogno di istituire una scuola di decorazione che, aperta nel 1932, rimase attiva fino al 1935, tenuta e condotta dal pittore Giuseppe Talamoni di Varese, in collaborazione con il Ghisolfi e il decoratore Brunelli. Ogni genere ceramico di quest’ultima produzione presenta una finitura curata, vernice compatta e brillante, decorazione ora alleggerita e con pochi colori, ora cromaticamente intensa e ricca di decori, completata con filettature.

Secondo il gusto e le tendenze affermatesi nell’opera, dalla ceramica Ghisolfi uscirono: cornicioni ornamentali come quelli della villa Menotti a Gaggio, capitelli anche policromi per monumenti funerari, piatti da pareti di dimensioni anche notevoli, anfore di tipo greco, albarelli (vasi per unguenti usati in farmacia).
Il “bleu” non fu più prodotto dal 1950 (o 1951), da quando cioè la famiglia Ghisolfi cessò l’attività di tipo artigianale. Da allora la ceramica artistica chiuse definitivamente i battenti, celando per sempre in uno scrigno d’oro i suoi segreti, che nessuno potè, ne potrà più ritrovare.

Della produzione non restano che frantumate raccolte private, divenute preziose e rivalutate come esempi di un’arte nostrana irripetibile, conosciuta anche oltre confine. Dell’antica fabbrica non rimasero a lungo che pochi ed “indiscussi” ruderi, che divennero poi, nella seconda metà degli anni ’90, un condominio.

MAESTRI CAMPIONESI – TAGLIATORI DI PIETRE

Nei tempi antichi, l’insegnamento d’arti e mestieri era patrimonio di classi separate, depositarie di antiche tradizioni, che si dedicavano agli studi segreti di architettura sacra e simbolica.

I segni più antichi conosciuti in relazione con il mestiere di tagliatore di pietra sono stati ritrovati in Egitto e corrispondono a 2200 anni prima di Cristo.

I tagliatori di pietra, fin dall’antichità, usavano marchiare i propri lavori. Tali segni sono stati trovati nell’antico Egitto, in Mesopotamia, sulle mura di Gerusalemme, di Troia, d’Olimpia e nell’antica Roma, così come marchi gotici, romanici, bizantini, romani, greci, rinascimentali.

Nell’Ordinanza di Torgau del 1462 si possono trovare ben sette articoli che si riferiscono ai marchi.
Riferimenti a tali segni si possono trovare anche in un altro documento, la Regola di Bàle, del 1563 (Art. 59). Come specificato in questi testi, i marchi dei tagliatori di pietra corrispondevano a segni d’appartenenza all’ordine. Conferiti nel corso delle cerimonie solenni, venivano scelti dai maestri, e non potevano essere rifiutati a un operaio “onesto”; inoltre, non dovevano subire modifiche, né essere ceduti a terzi ma dovevano essere preservati come segni onorifici.

Se ci forziamo di osservare e di comprendere questo linguaggio della pietra, ci accorgeremo che questi segni sono carichi di significato e di un simbolismo profondo da tempo dimenticato.

Nel corso degli anni i marchi si sono evoluti, influenzati dai rituali e dagli aspetti religiosi, simbolici e operativi delle corporazioni, dai periodi di transizione tra i vari stili di costruzione. Le diversità di carattere geometrico dei marchi dei tagliatori di pietra denotano il passaggio da un’epoca artistica a un’altra.

I tagliatori di pietra, avevano un loro modo tutto particolare e misterioso per comunicare: gli insegnamenti trasmessi oralmente, i giochi di parole utilizzati durante le occasioni speciali, un modo singolare di vestirsi, un certo modo di guardarsi e di posizionare i piedi, di camminare, di salutare, di ringraziare, di bere, di tendere la mano a un fratello.

La loro interpretazione simbolica era legata alla tradizione. L’utilizzo del simbolismo dei numeri e quello collegato agli attrezzi di lavoro ha dimostrato una conoscenza profonda dei principi fondamentali dell’architettura: il compasso che disegna il cerchio e che divide in modo proporzionale, la squadra che rappresenta l’impiego dell’angolo retto, il filo a piombo che serve a determinare la verticale. L’utilizzo del cerchio, del quadrato, del triangolo e d’altre figure geometriche era di fondamentale importanza per l’edificazione dei monumenti romanici e gotici.

CHIESA PARROCCHIALE SAN ZENONE

Consacrata nell’aprile del 1967, la “nuova” parrocchiale si erge maestosa su una piccola altura dalla quale domina il paese ed il lago con il suo campanile, che è come un alto stelo aperto a donare ai dintorni il suono melodioso delle sue campane.
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LA CHIESA SUPERIORE

È un grande edificio a forma di nave, con grandi pareti laterali in litoceramica mosse da esili diedri in aggetto, facciata alta su scalea, dominata da doppia vetrata a colori con effetto di rilievo esterno e racchiusa fra due importanti quinte di cemento.

Il campanile a parete concave, segnato agli spigoli da colonne di cemento e con cella campanaria aperta è sormontato da una bianca croce. L’interno, su due piani, è caratterizzato sia dal grande Crocifisso della parete di fondo, opera di Giannino Castiglioni, e dai colori delle grandi vetrate della facciata. Di notevole richiamo l’affresco “angeli Protettori” strappato del celebre pittore Bruno Saetti, premiato alla Biennale di Venezia nel 1962.

Dall’altro lato si stacca dalla parete la composizione bronzea della “Madonna in trono con il Bambino” di Mario Negri. All’interno della Chiesa il fonte battesimale. Il coperchio del fonte battesimale in argento martellato realizzato con vera originalità dallo sculture Giannino Castiglioni, raffigura lo Spirito Santo sotto forma di colomba che si posa sul libro aperto contenente la parola di Dio.

LA CHIESA INFERIORE

(Foto a lato mostra l’interno dell’aula inferiore  della Chiesa San Zenone)

Dalla strada laterale, o dall’interno della Chiesa superiore, si può accedre all’aula inferiore. Nella parte di fondo, dietro la mensa dell’altare, si delineano i tratti delicati e quasi sfumati della Deposizione che forma la pala dell’altare, del pittore Sandro Parmeggiani. Alla parete, in faccia all’altare, pendono le 14 stazioni della Via Crucis in bronzo opera dello scultore Enrico Quattrini. Fra i dipinti presenti nella chiesa anche la Cena di Emmaus (sull’altare a sinistra) del pittore contemporaneo campionese Roberto Belcaro.

IL  BATTISTERO

Il Battistero si trova all’esterno sul lato destro della chiesa, e forma quasi una costruzione a se stante ma nel suo insieme  è un piccolo  gioiello, degno della più alta considerazione. Le due vetrate, progettate dal pittore Aldo Carpi, sono d’una squisitezza artistica incomparabile: una raffigura l’Assunta nel momento culminante della sua esaltazione, l’altra rappresenta la Risurrezione di Cristo.

ORATORIO DI SAN PIETRO

Questa piccola chiesa, posta all’ingresso del centro storico dove anticamente si trovava una delle porte della cittadina, è uno dei monumenti più antichi che si sono conservati nell’exclave.

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In realtà è un frammento della vecchia chiesa in origine dedicata ai martiri ambrosiani Nazaro e Vittore che si affaccia ora sulla strada di uscita da Campione.

La storia

L’esistenza della chiesa è attestata dal testamento che Totone, un ricco mercante longobardo, ha redatto nel 777 in favore dei monaci di S. Ambrogio di Milano. La chiesa dei SS. Nazaro e Vittore, di cui ora si vede solo l’abside semicircolare sotto il pavimento all’ingresso, fu costruita nell’VIII secolo sopra una piccola necropoli longobarda. È indicata con questo nome ancora in un placito dell’875, successivamente la ritroviamo in un documento del 1148, ma con il nome di S. Pietro. In varie epoche storiche la minuscola, ma importante chiesa, ha subito profonde trasformazioni ancora in fase di studio per discrepanze sulle date di intervento. In epoca medioevale la chiesetta viene ampliata con la costruzione di un edificio romanico che sostituisce l’antica abside; il punto di congiunzione funge da arco di passaggio fra la precedente chiesa trasformata in lungo nartece e l’attuale aula a pianta rettangolare. Nel 1326 (epoca in cui sono stati eseguiti questi lavori) Jacobus de Sancto Petro, un illustre personaggio campionese, fa aprire una porta anche sul lato meridionale. Nel Settecento S. Pietro subisce altre trasformazioni con rifacimento di pavimenti e soffitti mentre nell’Ottocento, necessitando spazio per la costruzione della strada per S. Vitale, viene eliminata parte del nartece. Quest’ultimo è poi completamente demolito verso la metà del XX secolo quando viene tamponato l’arco e decorata la facciata con graffiti. I restauri eseguiti fra il 1994 e il 1998 hanno cercato di ritrovare e di mettere in evidenza le varie fasi della storia di questo spezzone di costruzione.

L’esterno

La facciata principale rivela oggi la semplicità romanica di quello che doveva essere l’arco di passaggio fra il nartece e la nuova chiesa di S. Pietro; alcuni lacerti di affresco ci rivelano che l’intradosso di tale arco era decorato. L’arco stesso è stato riempito e una porta a vetri di misure normali permette oggi di vedere l’interno della chiesa. Sul fianco meridionale, dove si trova la porta dei laici, una lapide ci ricorda che Jacobus de Sancti Petri, Console di Campione, fece eseguire i lavori nel 1326. Il giglio, di cui non esiste attualmente nessuna documentazione, è la probabile insegna della famiglia di Jacobus, quasi certamente titolare della cappella gentilizia di S. Pietro. La costruzione è tipicamente lombarda, eseguita in pietra grigia con facciata a capanna. Sul lato meridionale è ancora possibile distinguere il volto di S. Cristoforo, protettore dei naviganti, un affresco che occupava in altezza tutta la parete; tale immagine era ben visibile e rassicurante per coloro che arrivavano da sud e dovevano intraprendere un viaggio via lago.

L’interno

L’ambiente è un minuscolo edificio a navata unica con abside rettangolare e volta a crociera divisa in quattro vele. Gli affreschi che ricoprono interamente le pareti e la volta e che sono ancora discretamente leggibili sono stati recuperati sotto l’intonaco durante i lavori dell’ultimo restauro. Presente una statua secentesca della Vergine. L’altare e gli arredi di marmo bianco sono stati realizzati alla fine del XX secolo su disegno dell’architetto Banaudi che ha curato il restauro della chiesa.

Gli affreschi

La decorazione pittorica che ricopre tutte le superfici è ancora in stato di discreta conservazione e può essere attribuita a un artista lombardo dell’inizio del Trecento rimasto però anonimo. Con molta probabilità gli affreschi sono stati eseguiti, in alcuni punti, con la collaborazione di allievi meno esperti, ma nel complesso l’opera riveste un notevole valore pittorico grazie alla bellezza di alcuni personaggi, alla raffinatezza cromatica e all’accurato studio di alcuni atteggiamenti.

Nella chiave di volta è rappresentato l’agnello, simbolo del Cristo immolato, nella vela principale si trova il Cristo in mandorla mentre nelle altre sono raffigurati gli evangelisti con i loro simboli.

Il programma iconografico delle pareti è invece più complesso e si svolge su tre registri. Su quello superiore sono rappresentate storie della vita della Vergine. Iniziando da sinistra si nota la nascita di Maria, la bellissima Annunciazione, la Natività e l’Adorazione dei Magi (poco leggibile), la Presentazione al tempio (a sinistra della finestra centrale), il Funerale della Vergine (a destra della finestra centrale) e l’Incoronazione di Maria seduta su un bellissimo seggio con intarsi cosmateschi.

Nel registro medio è raffigurata una teoria di apostoli che tengono in mano i cartigli del Credo, figure dai volti più rozzi, ma circondate da riquadri più elaborati. Il ciclo del Cristo, affrescato senza tener conto dell’esatta successione cronologica, consiste in una Crocifissione, Deposizione e Arresto del Cristo dipinti sulla parete nord, di fronte all’ingresso laterale. Il ciclo continuava forse in controfacciata dove si possono ancora intravedere dei lacerti. La parete meridionale è invece occupata da scene singole fra cui si identificano facilmente l’ascensione di Elia sul carro, San Giorgio che uccide il drago e Santa Chiara, personaggio particolarmente amato in quell’epoca. Le im-magini di San Domenico e di Santa Caterina che appaiono sulle spalle della finestra centrale sono molto più tarde rispetto all’intera decorazione della chiesa, esse sono state dipinte probabilmente in occasione dell’allargamento della finestra stessa. La dimostrazione di tale successiva operazione è data dalle figure tagliate dell’affresco trecentesco (per esempio il San Pietro di cui resta solo una grande chiave).

Le sepolture

Con l’ultimo restauro l’ingresso dell’oratorio di S. Pietro è stato dotato di un pavimento in vetro che permette di osservare parte dell’antica abside semicircolare della vecchia chiesa altomedievale già esistente all’epoca in cui Totone redige il proprio testamento (VIII secolo). Tale abside è eseguita con molta cura utilizzando lastre di pietra moltrasina disposte a spina di pesce. La costruzione dell’abside è chiaramente realizzata sopra un’area cimiteriale di cui si può ancora vedere parte di una sepoltura. Oltre alla tomba visibile un’altra è stata individuata sotto l’attuale sagrato della chiesa, quindi sotto la primitiva costruzione altomedievale. Le tombe erano state rinvenute durante la prima costruzione, tagliate, ma ricomposte tanto che, nel corso degli ultimi restauri, sono stati ritrovati uno scheletro e numerose ossa. Dagli studi effettuati su questo materiale è risultato che lo scheletro, peraltro ben conservato, apparteneva a una donna sana deceduta in età avanzata, forse in seguito a un trauma osseo della tibia destra. La mancanza di arredi nella tomba non permette di individuare la classe sociale cui la persona apparteneva, ma l’epoca della costruzione della chiesa e le dimensioni delle ossa, troppo grandi per un fisico di carattere mediterraneo, fanno pensare ad una donna longobarda.

IL MUSEO PARROCCHIALE

PER LA VISITA AL MUSEO CONTATTARE IL PARROCO  TEL. 004191 649 8448

Suggestivo museo, allestito accanto alla chiesa inferiore della parrocchiale di San Zenone, con ingresso da Viale Marco da Campione, offre al visitatore uno spaccato di vita campionese, quella che si incarnava nelle antiche tradizioni religiose, dalla solennità della festa patronale alla ferialità dei quotidiani atti di culto, dalla devozione mariana del Santuario dei Ghirli alla venerazione dei Santi, compagni discreti ed insostituibili nell’avventura della vita.

Nelle ventotto vetrine, che occupano per tutta la lunghezza una parete dell’atrio, sono esposti arredi sacri, paramenti e documenti. Tra questi il manoscritto di Clemente XIII che nel 1749 concedeva l’indulgenza plenaria al Santuario dei Ghirli. Piene di fascino alcune edizioni del Messale del ‘600 e del ‘700. Più recenti, ma di grande interesse storico per la comunità, copie di lettere che testimoniano lo straordinario rapporto del cardinale Idelfonso Schuster con Campione. Suggestive anche alcune antiche cartaglorie ed ex voto provenienti dai Ghirli.

Tra gli arredi sacri, particolarmente cari al ricordo dei nonni sono i “vescovi”, quattro grandi reliquiari in rame argentato, a forma di busto, che si esponevano in occasione delle solennità. Rappresentano i santi Zenone, Ambrogio, Agostino e Carlo, l’origine cristiana e la tradizione ambrosiana di Campione, ma soprattutto raccontano i tempi passati, quando la festa era davvero festa, e nel recarsi alla Messa ci si vestiva con l’abito più bello.

Tra i paramenti, straordinari sono i raffinati tessuti damascati del Settecento, dono milanese della marchesa Trivulzi al figlio, monaco del monastero di Sant’Ambrogio, mandato vicario in quel di Campione. Inestimabile è il valore affettivo delle 14 tele della Via Crucis: più volte modificate da successivi interventi hanno riacquistato, attraverso un accurato restauro, lo splendore della composizione originale, riconducibile ad un artista di fine Settecento. Ancora tutta da scoprire la bellezza del tabernacolo in legno dell’antico altare maggiore di San Zenone, andato per il resto distrutto, mentre, ricostruito, è possibile ammirare l’altare successivo in marmo nero di Varenna datato 1742.

Alle pareti sono esposte grandi tele di soggetto religioso. Tra le altre, meritano un cenno particolare le due attribuite al Maestro Campionese Isidoro Bianchi (vedi Maestri Campionesi). Un tempo custodite al Santuario dei Ghirli, rappresentano rispettivamente il passaggio degli animali sull’arca di Noè e la presentazione di Maria Bambina al Tempio, copia di un’opera veneziana del Tintoretto.

Da menzionare inoltre la riproduzione fotografica, a grandezza naturale, di una tela sita in Sant’Ambrogio a Milano. Rappresenta la serie completa degli abati del Monastero di S. Ambrogio, dalla fondazione ai tempi di Carlo Magno e dell’arcivescovo Pietro, fino alla soppressione napoleonica. Mille anni di storia identificabili come vicende proprie anche di Campione: il feudo di S. Ambrogio, la presenza ininterrotta dei monaci, la comunità cresciuta in un contesto particolare: in altre parole le ragioni per cui Campione ha mantenuto nei secoli la sua peculiare identità. Il museo parrocchiale ha l’ambizione di conservare alcune tracce di quella storia, con l’intento di mantenere vivo il legame tra passato e presente. Per chi è avanti negli anni, sarà l’occasione per rivisitare con gioia le esperienze vissute in gioventù. Per chi invece è ancora nel fiore degli anni, sarà la scoperta di una tradizione, la cui bellezza ha il colore della speranza.

IL SANTUARIO DI SANTA MARIA DEI GHIRLI

Il Santuario di  Santa Maria dei Ghirli, anche se non ha mai svolto il ruolo di parrocchia, è senz’altro la maggiore e la più monumentale chiesa di Campione d’Italia.

Visitabile  nei seguenti orari:

dal 25 marzo al 4 novembre tutti i giorni  dalle ore 9.00 alle ore 18.00

dal 5 novembre al 24 marzo solo sabato e domenica dalle ore 9.00 alle ore 16.30

In origine

Il nucleo principale risale sicuramente al VII secolo seppur con il nome di S. Maria in Willari, compresa nel testamento di Totone che nel 777 lega le sue proprietà al vescovo di Milano e quindi all’abate di S. Ambrogio. Sull’origine del nome esistono diverse interpretazioni: la più diffusa l’attribuisce al termine dialettale “ghirli” con il quale si indicavano le rondini, o meglio i rondoni, che d’estate sono particolarmente numerosi nella zona e che con i loro periodici viaggi ricordano le migrazioni dei campionesi che andavano a lavorare lontani dal loro paese. Secondo altri, il nome andrebbe ricondotto a un termine di origine sassone che indica il luogo dove andranno o partiranno, che sarebbe stato importato da monaci di passaggio ospiti dello xenodochio (ostello per i viaggiatori). La contemporanea presenza vicino alla chiesa del cimitero del paese (luogo della partenza eterna) può aver giocato anch’essa nella attribuzione del nome.

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La costruzione esterna

La costruzione, che in origine doveva essere una chiesetta distante dall’abitato, molto semplice e senza grande rilevanza artistica, fu trasformata in oratorio intorno al Trecento secondo gli schemi dell’architettura romanica, a navata unica e con campanile quadrato. Verso la metà del secolo fu tuttavia affrescata, sia all’interno che all’esterno, da pittori di buona scuola. L’edificio, come ci appare oggi, è però opera di Isidoro Bianchi, un artista campionese del Seicento che si era meritato ottima fama a Torino come architetto. Successivamente i dettami della Controriforma influirono grandemente sull’architettura in genere e su quella sacra in particolare. Erano i primi sintomi del Barocco che doveva apparire circa un secolo dopo. L’imponente facciata a tre archi, rivolta verso il lago, è collegata ad esso da una scalinata monumentale a rampe incorniciata da due file di cipressi di grande effetto scenografico, soprattutto per chi approda dal lago. L’arco principale di accesso è riccamente decorato e dominato dalla colomba dello Spirito Santo mentre i due archi laterali introducono a dei portici che accrescono la monumentalità della costruzione e proteggono gli affreschi esterni. Il tiburio è elegante e slanciato, a differenza del campanile che, pur con i rimaneggiamenti settecenteschi, mantiene la poco elegante impronta romanica.

L’interno del Santuario

L’interno della chiesa, a navata unica e volta a botte, è diviso in tre parti: l’aula riservata ai fedeli, il Santuario ed il Presbiterio.

La parte riservata ai fedeli è decorata con affreschi trecenteschi (restaurati fra il 2010 e il 2011), parzialmente ricoperti dai finti loggiati che il Bianchi vi aveva introdotto per dare l’impressione di una maggiore spazialità. In controfacciata, gli affreschi sono mutilati dalla successiva apertura di finestre, mentre la parte nord denuncia i vistosi danni alla decorazione pittorica prodotta dall’umidità. Gli affreschi del Santuario sono un’esaltazione della missione della Vergine, chiaro esito della Controriforma avverso l’eresia calvinista, che il Bianchi rappresenta in modo molto coinvolgente, aiutato dalla copiosa luce che piove dal tiburio e dalla presenza degli angeli musicanti che tracciano il percorso verso il Paradiso. Sia il soffitto che le pareti sono arricchiti da stucchi di finissima fattura, specialità dell’opera del Bianchi e della sua bottega.

L’arco trionfale, splendidamente decorato da una suggestiva Annunciazione e dall’immagine dei santi Isidoro e Maurizio, introduce al Presbiterio dove campeggia un altare secentesco che incornicia un trittico del secolo precedente con al centro la Madonna del Cardellino. La lunetta che lo completa contiene una bella crocifissione nel tondo, circondata da fedeli oranti. La Madonna quattrocentesca ha, ai lati, due nicchie che ospitano la Maddalena con il vaso dei profumi e S. Rocco pellegrino. Le sculture rivelano una mano tipicamente campionese e sono vivamente ravvivate dall’effetto cromatico della pitturazione. I dipinti dell’aula gotica, che all’epoca dei restauri secenteschi era stata interamente ricoperta da intonaci e da stucchi sono stati successivamente riportati alla luce ed hanno rivelato un apparato pittorico di maestro ignoto ma di riconoscibile maestria, probabilmente riminese ma con forti influenze lombarde. Essi rappresentano la storia di S. Giovanni Battista e si svolgono nei due registri superiori mentre la parte inferiore, purtroppo molto rovinata, rappresenta un calendario impostato sulle attività agricole.

Sulla parete settentrionale si trovani i ss. Quattro Coronati, patroni dei lapicidi e degli scultori, che fa pensare sia originato della stessa committenza della vita di S. Giovanni. L’aula sacra, separata da una balaustra sormontata da una cancellata, è decorata con gli affreschi secenteschi di Isidoro Bianchi che rappresentano lo sposalizio della Vergine con, sul fondo, la Visitazione; di fronte, la presentazione al Tempio con la fuga in Egitto che si intravede sullo sfondo; l’Annunciazione è al centro, sull’arcone, mentre sui due pilastri laterali sono rappresentate le figure dei santi Maurizio e Isidoro. Nei riquadri del tamburo è dipinta l’Assunzione con le quattro Sibille: Frigia, Egizia, Samia e Tiburtina. Nell’intradosso del coro sono rappresentati quattro Profeti, sulla volta gli Angeli e sopra l’Adorazione dei Magi, probabile opera di altro autore.

Il portico, ricco di affreschi di epoche diverse, è protetto con delle vetrate. La raffigurazione più importante è senz’altro il Giudizio Universale di epoca quattrocentesca eseguito dai fratelli Lanfranco e Filippolo de Veris.
Nel registro superiore è dipinta la figura di un Cristo tribolato, su un trono circondato da angeli che portano i simboli della Passione; ai lati vi sono gruppi di supplicanti, tra cui religiosi, papi e re in atteggiamenti scomposti a loro volta incalzati da altri angeli. È senz’altro una allegoria che propone la lotta tra il bene ed il male, nonché la diffusa corruzione in ambito ecclesiastico; così come la moraleggiante scenetta accanto alla porta che rappresenta tre personaggi agghindati con i fastosi costumi dell’epoca, due dei quali (il cavaliere e la dama) vengono puniti dalla furia divina per il loro cattivo comportamento. Sul registro inferiore è visibile una scena di vago sapore dantesco, con demoni e dannati sottoposti a varie torture. Sui pilastri e sopra la porta si possono ammirare altri affreschi minori della stessa epoca: 5. Goar, monaco venerato dai barcaioli del Ceresio, una Madonna con Bambino, l’Annunciazione e sul fondo S. Ambrogio.

Sulla destra della porta di accesso alla chiesa si trova un grande affresco proveniente dal portico settentrionale e dal quale fu strappato nel 1893. Si tratta della cacciata di Adamo dal Paradiso Terrestre eseguita nel 1514 da un pittore ignoto; certamente di scuola lariana che alcuni identificano in Bernardino Luini senza però alcuna prova documentale. Sulle pareti esterne sono ancora visibili alcuni affreschi votivi del XV secolo di esecuzione artigianale, quali la Madonna del Garofano sulla facciata e i santi Rocco e Sebastiano, accanto all’ingresso alla torre campanaria nel portico settentrionale. Come già detto, la chiesa di Santa Maria dei Ghirli non è mai stata destinata alla cura d’anime bensì ad essere monumento di se stessa e testimonianza della religiosità della gente di Campione, attraverso le raffigurazioni pittoriche ed architettoniche che la contraddistinguono. Le cospicue opere pittoriche e gli stucchi eseguiti da Isidoro Bianchi per esaltarne la ricchezza e l’imponenza, dimostrano inoltre l’amore per la propria terra di un artista che aveva riscosso onori e riconoscimenti a Torino, Milano, Como, Praga ed altre importanti città, ma non aveva dimenticato il suo piccolo paese sulle rive del Ceresio.

I MAESTRI CAMPIONESI

I MAESTRI CAMPIONESI

Denominazione con cui si designano le maestranze di scultori, lapicidi e architetti originari della zona di Campione attivi in varie regioni italiane e in Svizzera tra la seconda metà del XII e la fine del XIV secolo.

Isidoro Bianchi (Campione d’Italia 1581-1662)

Pittore noto soprattutto per la sua attività di frescante, esercitata in tutta la Lombardia e in varie prestigiose residenze sabaude del Piemonte. Fu fortemente influenzato dalla collaborazione con il Morazzone ma risentì anche della pittura del Zuccai. Fu noto anche come stuccatore, allestitore di apparati celebrativi e architetto-ingegnere. Nel 1605 è documentato a Praga, l’anno seguente a Viggiù poi non si sa più nulla di lui fino al 1617 quando è al lavoro a Torino. Sua maggior opera rimane il Santuario di Santa dei Ghirli a Campione. Conosciuto principalmente come pittore di grandi affreschi: a soggetto religioso in Lombardia (Como, San Fedele; Milano,Sant’Ambrogio; Monza, Duomo; Campione, Santa Maria dei Ghirli), a soggetto storico presso i cantieri sabaudi, dove subentra al Morazzone e lavora con i figli Francesco e Pompeo. Attivo nella stagione di Vittorio Amedeo I e della reggenza di Cristina di Francia, è nominato pittore di corte e cavaliere dell’ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro (1634).

Anselmo da Campione (1160 – inizio XIII secolo)

Si formò probabilmente ad Arles e lavorò poi nella fabbrica del duomo di Modena, primo importante centro di attività dei Maestri Campionesi. Gli sono attribuiti il transetto (1160 circa) e il cosiddetto pontile (1170) della chiesa nonché i rilievi che adornano l’arco d’ingresso alla cripta.

Arrigo I da Campione (1220 circa – 1270)

Abiatico di Anselmo, operò quale architetto e scultore nel cantiere del duomo di Modena.

Bonino da Campione (attivo tra il 1350 e il 1397)

Agli esordi lavorò probabilmente al seguito di Giovanni da Campione. Realizzò il monumento funebre di Folchino de’ Schizzi (1357) e la tomba di S. Omobono nel duomo di Cremona (oggi perduta), la statua equestre di Bernabò Visconti, terminata nel 1363 (ora a Milano, al Museo d’arte antica del Castello sforzesco), e l’arca di Cansignorio della Scala ( 1375) a Verona. Sulla base di raffronti stilistici gli vengono ascritte varie altre opere, fra cui la tomba del vescovo Balduino Lambertini ( 1349) nel duomo vecchio di Brescia e il mausoleo di Stefano e Valentina Visconti in S. Eustorgio a Milano (1359).

Giacomo da Campione

Attivo per la fabbrica del duomo di Milano dal 1387 al 1391, è autore del portale cuspidato della sacrestia aquilonare (1390); nel 1396 partecipò alla posa della pietra di fondazione della Certosa di Pavia.

Ugo da Campione (1308-1353)

A lui sono attribuite alcune delle Virtù del battistero di Bergamo e le figure che adornano gli stipiti del portale settentrionale dell’adiacente S. Maria Maggiore (1351), eseguite in collaborazione con il figlio Giovanni. Ugo è inoltre autore del sepolcro del cardinale Guglielmo de Longis in S. Maria Maggiore a Bergamo (1313) e della tomba di Guiscardo Lanzi, oggi perduta. Suo figlio Giovanni, attivo dal 1348 al 1360, operò prevalentemente a Bergamo: nel battistero realizzò alcuni rilievi raffiguranti le storie della Passione, caratterizzati da un modellato vigoroso; in S. Maria Maggiore eseguì dapprima la statua equestre di S. Alessandro per il protiro settentrionale (1354), successivamente il protiro meridionale (1360). Nel 1348 operò nella Parrocchiale di Bellano.

Marco Frisone da Campione

Scultore, architetto e ingegnere attivo nel 1387-90. Lavorò per il duomo di Milano, così come Lorenzo degli Spazi (menz. 1391-1402), il quale inoltre fu a capo del cantiere della cattedrale di Como dal 1396 al 1402. In ordine di tempo e di autorità Marco è il primo architetto del duomo di Milano che si conosca. Compare come maestro ed ingegnere nel 1387 e sembra che appunto allora cominciasse a prevalere su Simone da Orsenigo e divenisse da quel momento l’esecutore principale del disegno. Si è discusso lungamente sulla persona che ha dato il disegno del Duomo; chi sostiene che sia stato Simone da Orsenigo, ma l’opinione più probabile e adottata dalla maggior parte degli storici attribuisce tale onore a Marco da Campione. È strano che non si conosca alcuna delle sue opere, oltre il Duomo, ma non è accertato che il disegno del grandioso ponte sul Ticino a Pavia debba a lui attribuirsi, e neppure è accertato ch’egli verso la metà del secolo XIV fosse architetto del Duomo di Crema. Morì il 10 luglio 1390 verso l’Ave Maria del mattino ed il suo corpo fu onorificamente sepolto nella chiesa di S.Tecla, nella quale era proibito di seppellire i cadaveri se non fossero di persone sommamente distinte (da I MAESTRI CAMPIONESI  del Prof. Salvatore Boffa – Milano 1898).

Matteo da Campione 1335 – 1396

È uno dei più grandi artisti, forse il più grande fra i Maestri Campionesi. Egli non era ingegnere stabile nel duomo di Milano, ci veniva però chiamato straordinariamente, come avvenne, fra le altre volte, per assistere alla seduta del 6 gennaio 1390, il giorno della morte di Frisone. Il Capitolo della Fabbrica del Duomo scrisse a Matteo, ingegnere in Monza, invitandolo ad accettare di succedere al suo compatriota defunto: a questo onore preferì quello di attendere ad un’opera più modesta, ma non meno bella e tutta sua, nel duomo di Monza.
Era stato chiamato a Monza fin dalla metà del secolo XIV, e quivi aveva ideato la facciata di quel vetusto Tempio di S. Giovanni, la quale senza tema di smentita si può dire uno dei gioielli meravigliosi dell’architettura italiana nel secolo XIV. Impiegò ben 25 anni nel duomo di Monza, i cui lavori furono incominciati per ordine e a spese di Matteo Magno Visconti. Compose e scolpì il marmoreo Battistero, già acclamato per finitezza e leggiadria, ma che il tempo e i tumulti avvenuti in quel Sacro Tempio, a causa dei dissensi religiosi, sciuparono in modo da non lasciarne neppur le vestigia.

Il pulpito, lavoro di molto pregio, che può benissimo competere con altri simili lavori che si eseguivano allora in Toscana, dura ancora, ma trasformato in tribuna per i cantori; merito però di Matteo si ingrandisce e supera quello di ogni altro architetto del suo tempo, quando l’occhio si riposi e la mente rifletta sulla stupenda facciata del S. Giovanni. È un lavoro veramente grandioso, nel quale in graziosa e simpatica consonanza si contempera lo stile gotico, l’arabo e il bizantino, senza confusione, senza stonature, ma con semplicità e naturalezza. Matteo certamente contribuì alla riedificazione dell’intero duomo di Monza, altrimenti sarebbe inesplicabile il titolo di grande edificatore a lui attribuito dai contemporanei. Il Calvi vuole che Matteo sia l’autore del monumento a Bernabò Visconti, eretto nella chiesa di S.Giovanni Conca, che ora trovasi nel Museo Archeologico di Brera, e che da altri con maggior probabilità è attribuito a Bonino. Matteo morì a Monza il 24 maggio 1396 e volle essere sepolto nella chiesa, alla cui bellezza artistica aveva consacrata la scintilla del suo genio. Nel luogo dove sorgeva il suo avello, che ora è scomparso, si legge ancora il seguente epitaffio “Qui giace quel grande edificatore divoto maestro Matteo da Campione, che di questa sacrosanta Chiesa edificò la Facciata, il Pulpito e il Battistero “. La tradizione indicò ed il popolo riguardò sempre come ritratto di Matteo la figura rigida e pensosa, scolpita in marmo, che sta sulla punta dell’arco del finestrone biforo che si trova a sinistra della Facciata. Nessun documento ha smentito tale tradizione, la quale sarebbe anzi convalidata dall’usanza che allora vigeva fra gli artisti di ritirarsi appunto in qualche figura o statue delle loro opere.